Il diversamente vivo
Il Giornale Off e il blog City Perugia hanno recentemente pubblicato un articolo sul libro di Ottavia Fusco “’Nu piezzo ‘e vita” (Santelli editore, 2021).
“‘Nu piezzo ‘e vita” è il nuovo libro di Ottavia Fusco con la prefazione di Barbara Alberti, scrittrice e personaggio televisivo, l’introduzione di Massimo Cotto, giornalista e scrittore e la postfazione di Matteo Fantozzi, giornalista e critico cinematografico.
Un volume che è stato difficile da raccontare, con una ferita ancora aperta Ottavia parla di quell’amore che ha vissuto e che poi ha perso. Racconta di Paolo Squitieri e della loro storia d’amore vissuta lettera per lettera, dove in ognuna il ricordo è così vivido da ricostruire la personalità e il ritratto di suo marito. “Il diversamente vivo” così lo definisce.
Paolo Squitieri, un regista che ha fatto la storia del cinema italiano, dai film di mafia e droga, dal tema del terrorismo alle immigrazioni, dagli storici-politici ai drammatici e Ottavia Fusco, un’attrice e una moglie che le è stato accanto dal palco fino alla sua morte.
Di seguito vi riportiamo parte dell’intervista di alcuni anni fa citata su City Perugia.
Ero praticante giornalista a Paese Sera e in un turno di notte arriva una telefonata, un signore che cercava lavoro minacciava da più di 12 ore di gettarsi dal Colosseo; mi precipito e mi informo, era il 1958. C’era una folla infernale: il Sindaco di Roma, psicologi, giornalisti, curiosi… e c’era anche Cesare Zavattini, uno dei più grandi scrittori italiani, uno dei più famosi sceneggiatori di cinema. Nel buio pesto mi inerpico per raggiungere quel disgraziato, mi presento e gli dico: “Sono di Paese Sera, se scendi ti faccio un’intervista, se non scendi me ne vado perché fa un freddo del diavolo!”. Lui scende, nella meraviglia di tutti quelli che da ore gli chiedevano la stessa cosa. Zavattini rimase sbalordito dalla semplicità con cui avevo tirato giù quel signore dal Colosseo, si creò tra noi un’empatia. Il giorno seguente lo incontrai nel suo studio sulla Nomentana e gli dissi che volevo fare il regista, che avevo lavorato per molto tempo con Francesco Rosi, anche in teatro, e che avevo scritto un copione cinematografico, Io e Dio. Zavattini lo trattenne per leggerlo. Dopo tre giorni arrivò in redazione una telefonata di Vittorio De Sica, che mi invitò nella sua casa all’Aventino per parlarne. Stava girando I girasoli in Unione Sovietica. Mi disse che il mio film era bellissimo, ma nessuno me l’avrebbe mai fatto fare. De Sica mi chiese quanto mi serviva – io non avevo idea dei costi di produzione, gli dissi 10 milioni di lire – lui mi portò nella sua banca, mi diede 2 milioni in contanti e mi chiese: “Ce la fai per cominciare?”.
Oggi non tutti hanno la fortuna di avere un grande maestro che punta su un talento: che cosa deve fare un giovane filmmaker per puntare in alto?
Nei miei quarant’anni di carriera nel cinema ho provato ad aiutare i miei aiuto registi, ci sono riuscito due volte. Solo che all’epoca il cinema era nelle mani dei privati. Appena è arrivato lo Stato è arrivata la spartizione politica di questo capitale. Per l’ultimo film che ho girato ho dovuto chiedere i fondi al Ministero, non potevo chiederli a un Vittorio De Sica, perché senza il contributo statale non avrei la distribuzione. E i contributi statali vengono dati a seconda delle collocazioni politiche, del nome… pensa che io, che ormai sono vecchio e ho alle spalle venti film, ogni volta per fare un film devo ricominciare tutto da capo. Questo ‘cinema di Stato’ ha allontanato completamente gli autori; quei pochi che riescono a fare qualcosa di buono lo fanno per la televisione, oggi la fiction ha vinto sul grande schermo, sul cinema tradizionale. E siamo massacrati, anche in tv, dalle produzioni tedesche, francesi, americane, giapponesi, perfino cinesi! Non c’è spinta culturale, emotiva, non c’è più niente.
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